MICS di Montecarlo [Seconda Parte]

Proseguiamo la nostra breve disamina sullo svolgimento del Montecarlo International Clubbing Show concentrandoci sui contenuti della seconda giornata. L’approssimarsi del fine settimana ha sicuramente attratto un maggior numero di visitatori, alcuni del settore, molti altri curiosi o semplici clubbers. Monaco si è animata e il MICS con essa.

In questo secondo appuntamento abbiamo avuto modo di presenziare a due conferenze che avevano ad oggetto rispettivamente il rapporto agenzie di booking/clubs e le nuove tecnologie nella professione del disc jockey. Nella prima delle due ci è stato possibile assistere al confronto di approcci sostanzialmente differenti: dal club medio come Le Palais di Cannes fino al Amnesia di Ibiza.

Realtà importanti come Amnesia, importanti sia per prestigio internazionale che per dimensioni e capienza hanno sottolineato la totale assenza di relazioni con agenzie di booking e la gestione interna del rapporto con gli artisti. A supporto di questa linea non c’è  soltanto una deliberata scelta, ma anche e soprattutto una condizione oggettiva. Un locale da 4000 persone non può permettersi scelte artistiche sperimentali ed è quasi costretto ad offrire ai propri ospiti nomi di grandissimo spicco e richiamo, in modo da garantire un’adeguata affluenza. Lasciare alla concorrenza i nomi eccellenti e giocare la carta di un disc jockey con un posizionamento di mercato inferiore si tramuterebbe in una serata quasi certamente in perdita. Da questa circostanza deriva la possibilità di offrire alle star dj un numero cospicuo di ingaggi e l’inevitabile canale privilegiato nei contatti e nella trattativa.

In una posizione differente si trovano invece i locali come il Palais che pur seguendo scelte artistiche di livello elevato tendono ad avvalersi anche di agenzie di booking che consentano di esplorare il mercato in cerca di talenti emergenti e spettacoli originali, sebbene meno commerciali. Questo anche perchè sarebbe impensabile offrire ogni sera dj sets da 50 mila euro ad un sala dalla capienza media.

Facendo la media dei differenti approcci ci sembra di poter tirare le somme in questa direzione, peraltro condivisa dai relatori della conferenza: il drastico spostamento in alto dei compensi di alcuni artisti ha reso inaccessibili certi prodotti ai locali medio-piccoli. Il club cerca di puntare, oggi più che in passato, sul richiamo del “nome” e in virtù di questa scelta giustifica o meno l’investimento economico. Sebbene lo si ammetta con rammarico tali dinamiche di mercato sembrano inevitabili e proiettano uno scenario in cui il dj medio difficilmente troverà opportunità su questi palcoscenici, per quanto bravo, competente, originale. L’unico modo sembra essere quello di sfruttare lo strumento delle produzioni discografiche che valorizzano (se di buona qualità e risonanza) il nome dell’artista. Purtroppo non possiamo esimerci dal porre una domanda provocatoria: buon produttore è un inequivocabile sinonimo di buon disc jockey? Come evidenziato dal titolare di una delle agenzie di booking intervenute, quello che si cerca di proporre ai clubs è un disck jockey capace di animare una pista da ballo e tale capacità non va necessariamente a braccetto con quella di produttore discografico.

Passando alla seconda conferenza è stata affrontata la questione dell’ingresso delle tecnologie nella professione del dj. Non vi è dubbio che anche in questo caso si stia assistendo ad un fenomeno inevitabile, ma si è provato a comprenderne i limiti. Non staremo qui  ad alimentare l’interminabile diatriba tra vecchia scuola e nuova scuola del disck jockey, non vi è dubbio che il digital djing abbia aperto nuovi scenari ed abbia reso accessibile questo mestiere anche ai novizi delle nuove generazioni. Bassi costi di ingresso e tecnologie in grado di compensare il divario di esperienza tecnica rispetto ai veterani (vedi Sync) consentono a chiunque di intraprendere questo mestiere. In altre parole stiamo assistendo alla socializzazione del djing. Questo non è necessariamente un male, soprattutto se si considera che oggi si hanno a disposizione mezzi in grado di arricchire drasticamente i contenuti artistici di un dj set. Loops, campionatori, effetti, multi-decks rendono possibile virtuosismi musicali e originalità impensabili con un tradizionale giradischi.

Indiscutibile poi il vantaggio e la comodità di poter portare con sè 30 anni di musica in un paio di kg di peso. Quello su cui quasi tutti i relatori hanno convenuto è “l’effetto distrazione” che la tecnologia esercita sul disc jockey, il quale spende talmente tanto tempo a controllare il monitor e i comandi dei propri controllers da  perdere di vista il rapporto con il pubblico e la pista. Come detto dallo stesso Bob Sinclar, da noi intervistato (a breve pubblicheremo il relativo video), la gente in pista percepisce quando il dj non entra in empatia con la pista che ha di fronte. Mille controlli, centinaia di nomi di tracce, la ricerca di quella che si sposa alla perfezione per garantire un mixaggio da applauso possono spostare l’attenzione da quella che è la mission originale di un dj, ossia animare la serata e far ballare la gente. Con la globalizzazione della musica che consente a tutti di accedere alla medesime produzioni e la tecnologia che appiana le differenze tecniche, fare il dj è, oggi più che mai , una questione di esperienza e capacità di analizzare psicologicamente il pubblico che si ha di fronte, una riflessione che ci sentiamo di raccomandare a tutti i direttori artistici, pr e proprietari di locali.

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